Recensioni di Rino La Delfa, Giuseppe Mendola, Maria Genova
Sull’opera pittorica di EVA FRIESE Solarità è un termine col quale si distingue la qualità di ciò che irradia una luce su chi osserva. L’impatto immediato con l’arte pittorica della Friese consiste principalmente nella sensazione di essere inondati da una forza prorompente di luce che emana dalla tela come da una finestra aperta sul mondo dell’armonia dei colori e dei loro archetipi. Rispetto alla maniera tradizionale dell’arte pittorica (tipicamente invalsa a partire dal tardo-rinascimento con Caravaggio) tutta tesa a catturare la luce esterna per disvelare la forma nascosta all’interno, in una sorta di meditazione introversa, la modalità scelta dalla Friese si propone quasi come rottura coi canoni del sensazionalismo di contrasto (luce/ombra), per diventare un mezzo della comunicazione del vero e del bello senza il filtro del pennello ma con il velo del simbolo. La luce è già nel teatro dei colori che si stende sulla scena circoscritta dalle tele della Friese, e da qui si irradia su chi si sporge a guardare. A partire da questa scelta, l’arte che ne deriva si dimostra uno strumento efficace di esaltazione del senso visivo e contemporaneamente una esperienza di attrazione centripeta dentro la spiritualità del simbolo. Non è casuale osservare una figura creata dall’autrice e sentirsi parte dell’opera, cioè presente dentro la scena che si sta osservando. Questo mi sembra essere infatti il nuovo dell’esperienza artistica della Friese: aver posto le condizioni per ristabilire un nuovo rapporto tra arte e fruitore. L’opera diventa una estensione del senso ottico e spirituale di chi guarda in una dimensione che va oltre ciò che è veduto e percepito. Se l’esempio può aiutare, l’arte può essere paragonata nella prospettiva impressa ad essa dalla Friese, a uno strumento, qualsiasi strumento, possa servire all’uomo per ottenere dai propri sensi e mezzi naturali molto più di quello che essi altrimenti darebbero: una lente d’ingrandimento concede all’occhio, anche il più accorto, una estensione visiva che da solo non otterrebbe; una bicicletta dà alle gambe una potenza di velocità nel movimento che da sole non potrebbero mai sperimentare. Analogamente, l’arte viene dimostrata dalla Friese come una capacità personale di accellerazione della propria comprensione, una capacità estensiva della propria visione. Ma l’arte non è mai una cosa, come lo sono gli strumenti, l’arte è la capacità personale di stare dentro l’arte: di non essere solo fruitori come spettatori di una cosa, ma fruitori come attori nella scena che si rappresenta. L’invito dell’autrice è pertanto un invito a uscire dalla vita per entrare nel suo/nostro teatro dei colori. Prof. Dott. Rino La Delfa Docente di Ecclesiologia e Mariologia Facoltà Teologica di Sicilia, Palermo Docente di Filosofia della Religione Maryland University
"CONTEMPLATA REFERO"
29.11.-15.12.2008, Galleria Civica “Sciortino” Complesso Monumentale Guglielmo II, (Monreale).
C’è una dimensione contemplativa nell’arte figurativa di Eva Friese che ne dice il senso profondo. Sarebbe tuttavia insensato confondere questa dimensione con la ricorrenza fra le sue opere di temi che appartengono alla sfera e cultura religiosa. Ci sono volte infatti in cui un soggetto volutamente sacro non invita ma distoglie dalla contemplazione. Contemplare non è soffermarsi su una idea o concetto di Dio, su una sensazione unica, nemmeno su una sua rappresentazione artificiale, naturale o simbolica, ma, come ha suggerito Tommaso d’Aquino, “il semplice intuito della verità”, lo stare dentro le cose, fino a vederle e percepirle dall’interno, secondo le modalità diverse e sorprendenti del loro darsi. Per lui contemplare segue ad amare, non è un atto dell’intelletto, non è il vertice di una conoscenza scientifica, ma un atto della volontà, che segue alla conoscenza intuitiva, e si esplica nel bisogno di far conoscere e di far amare agli altri la verità contemplata.
L’itinerario artistico sigillato nelle opere di questa pittrice rimanda a un cammino interiore da lei compiuto dentro la verità delle cose e si propone come invito, soave e libero, a fare altrettanto. La scelta di trasfigurare l’interiore bellezza delle cose semplici e piccole, come sotto una lente d’ingrandimento, per ingigantirle, racconta il connubio tra volontà e amore, nella scoperta che l’occhio può fare quando coglie colori e lineamenti non come l’espressione di un cliché determinato e statico della bellezza, ma come il suo darsi infinito. Il germogliare e l’appassire di fiori nell’attimo stesso della contemplazione, il maturarsi di un frutto, il suo celarsi tra le foglie, e lo svelarsi dell’erba e dei fiori di prato nelle loro infinite forme, sembrano dirci, sulla tela alla pari di un libro, che non c’è bellezza che possa essere fermata nell’attimo artistico, secondo una tradizione estetica di umore neo-classico, se non è colta nel narrarsi sequenziale del vero che l’occhio e la mente sono come sfidati a raccogliere. La Friese racconta ciò che ha visto, sentito e conosciuto nella pochezza umile delle creature nascoste, e le ridona attraverso la luminosa forza della sua arte nell’atto di svelare la misura incommensurabile che esse portano dentro. Non è dunque l’estro dell’artista a far bello il creato, sebbene ne sia l’amore a svelarne la grandezza con un atto cognitivo della volontà, appunto la contemplazione.
‘Contemplare’ è un verbo molto antico con cui si descriveva l’azione dell’augure, che, per osservare il volo degli uccelli, doveva alzare lo sguardo e il pensiero verso il templum, cioè verso il cielo, uno spazio libero e vasto, e, circoscriverlo con (cum) il suo lituo, l’adunco bastone senza nodi, penetrando così con l’occhio un lembo di orizzonte inafferrabile nella sua interezza e, ciò nonostante, fissando dentro di esso il movimento disarticolato del volo degli uccelli da cui trarre presagi. La traslazione del senso, nell’uso contemporaneo del termine, ha finito con l’indicare l’atto di fissare con la mente qualcosa tra le tante, forse con la presunzione di contenerla, come si farebbe col soggetto di una impressione fotografica sulla pellicola.
Oggi l’accezione del termine cioè fa a meno di implicare l’importanza di quel movimento inafferrabile che l’occhio, per poter discernere, tratteggia dentro i limiti di uno spazio dentro lo spazio, con la consapevolezza che l’effimero (l’estemporaneità del movimento) non è mai proporzionale alla certezza del significato (il presagio augurale) cercato. La Friese mostra di concepire gli oggetti contemplati nel loro movimento interiore, e lo fa con l’avvertenza di una ricerca artistica che deve essere inesauribile, poiché la misura della scoperta è sempre eccedente rispetto a quello che l’occhio coglie nella concretezza delle proporzioni reali. La suggestione che l’arte ricava da questo modo di contemplare la realtà non invita a fissare un momento dell’eternità nel tempo ma a cogliere il dinamismo del tempo dentro l’eternità. Per questo fermarsi, nel senso di abbandonarsi, a guardare il templum, il cielo, riverso negli spazi finora meno frequentati della terra, quelli dell’umiltà, anziché rivelarsi un esercizio ozioso del gusto, può diventare un invito a tornare gioiosamente a guardare e amare la terra mentre cresce e si colora di cielo.
Prof. Rino La Delfa
Facoltà Teologica di Sicilia
Le opere della pittrice Friese hanno potenzialità di stato d’animo e tonale esuberanza di colori ad arricchire l’espressività profondamente vissuta nella gradualità dei passaggi impegnativi con variegata esperienza professionale.
Nata in Polonia, cittadina tedesca è residente a Palermo; uscita “Disegnatrice comunicativa” dalla Università di Essen e perfezionatasi in pittura ha partecipato a collettive ottenendo “Premio di pittura nel concorso ETSI-CISL di Palermo per la “Festa della donna” del 1990.
Ha illustrato libri di una casa editrice e con opere di contenuto spirituale ha esposto per l’UCAI di Palermo alla Madonna della Catena, S.Mamiliano, Stanilao e Madonna dei Rimedi.
Per il Convegno del 2006 a Verona ha realizzato la IV Stazione della Via Lucis, “Gesù risorto in cammino coi discepoli verso Emmaus”, là fu in mostra nella Chiesa di S.Tomaso. Nell’opera vi è magistralmente rappresentata la comunicazione, forte e costante, negli sguardi delle figure laterali che rivolgendosi a Gesù sono di grande realtà vivificante in alto significato dogmatico.
Nella sede UCAI, cripta della Chiesa San Giorgio dei Genovesi, il 7 marzo c.a., è stata inaugurata la mostra di opere pittoriche e scultoree dell’ ESSERE DONNA di 20 soci artisti in un crogiolo di cultura, una partecipazione di grande richiamo.
Nell’amore dell’arte, come nel continuo di mostre, nel mistero del soprannaturale e nell’ambiente architettonico di San Giorgio dei Genovesi: in cui la pietra tombale della famosa pittrice del ‘600 Sofonisba Anglissola, illustre per le straordinarie doti artistiche che ben rappresenta il corale impegno, con ammirevoli insorgenze di opere, nel succedersi di rassegne di arte sacra.
Giuseppe Mendola
“La saggezza indica il sentiero per raggiungere la vita”, 2001, olio su tela, 80x100 cm,
in occasione della mostra “Senilità e Giovinezza dello Spirito”, dal 19.04.- 08.05.2002, Palazzo Branci-forte (Palermo), organizzata dalla Archidiocesi di Palermo a cura di Maria Genova.
Nell’opera presentata, con un segno delicato e lieve, è sviluppato un tema profondo che assimila la vec-chiaia alla saggezza, come avviene nel mondo biblico dove gli anziani sono sempre investiti di grande saggezza.
La scena è calata nella realtà del presente per l’abbigliamento delle due figure ma la connotazione dello spazio è puramente simbolica perché indica la meta (la vita) nel paese lontano e la difficoltà del percorso costituito da tortuosi sentieri, quasi un labirinto. Il dipinto rivela la capacità dell’artista nel costruire le forme con i colori usati secondo le qualità timbriche; il giallo, il blu e il verde rendono la dimensione dello spazio ed esaltano la luminosità della composizione; il rosso dei papaveri, citazione da Monet, si inserisce nella orchestrazione cromatica mettendosi in relazione con i viola. Il gestire del vecchio e della fanciulla assumono un significato profondo; allo smarrimento della giovane per la lunga e difficile strada da intraprendere fa da contrappunto, quasi intersecandosi ad incastro, il gesto del vecchio il cui viso anche se di profilo è ben visibile a differenza di quello della fanciulla. E’ un giuoco di rimandi, di parole dette e di gesti eloquenti: del saper chiedere che è anche segno di umiltà e di saper dare risposta che è segno di saggezza.
Maria Genova